Le principali paure del futuro legate all’intelligenza artificialeNegli ultimi anni, l’intelligenza artificiale (IA) è passata dai laboratori di ricerca alle nostre vite quotidiane, promettendo benefici straordinari in molti campi. Allo stesso tempo, però, è cresciuta un’ondata di timori sul potere di queste tecnologie e sul loro impatto sul nostro futuro. Non si tratta di fantascienza alla Terminator, ma di preoccupazioni concrete espresse da scienziati, imprenditori, filosofi e comuni cittadini.2025-06-11 09:34:21 Visualizzazioni: 297
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Dalla possibilità di perdere il controllo sulle macchine intelligenti, all’uso dell’IA per manipolare le masse, fino ai rischi estremi di una superintelligenza fuori controllo, esploreremo in dettaglio le dieci principali paure legate all’IA. Ogni sezione esaminerà una di queste paure, fornendo esempi attuali, riferimenti storici, citazioni di esperti e riflessioni su come affrontare queste sfide. Scopriremo che, accanto ai rischi, esistono iniziative in corso – governative, accademiche, aziendali – per guidare l’IA verso uno sviluppo sicuro ed etico. L’obiettivo è offrire al lettore, colto ma non specialista, una panoramica approfondita e accessibile di questi temi cruciali, in stile divulgativo e coinvolgente. Prepariamoci dunque a questo viaggio tra promesse e timori dell’intelligenza artificiale, cercando di capire insieme come governare al meglio questa potente tecnologia del futuro. 1. Perdita del controllo umano su sistemi intelligentiUna delle paure più radicate riguardo all’IA è la perdita del controllo: il timore che sistemi intelligenti possano sfuggire alle mani dei loro creatori. Questa preoccupazione esiste da molto tempo. Già nel 1951, il pioniere Alan Turing avvertiva che “una volta avviato lo sviluppo di macchine intelligenti, non ci vorrà molto perché superino i nostri deboli poteri. A un certo punto dovremo aspettarci che le macchine prendano il controllo”scienzainrete.it. In altre parole, Turing immaginava che, progredendo abbastanza, le macchine potessero diventare più abili degli esseri umani e persino dominarli. Un celebre racconto di fantascienza del 1909, The Machine Stops di E. M. Forster, anticipava un futuro in cui l’umanità dipendeva ciecamente da una macchina onnipotente, perdendo gradualmente la capacità di comprenderne il funzionamentoscienzainrete.it. Questo scenario letterario è diventato sempre più plausibile man mano che l’IA è entrata in sistemi critici. Oggi infatti affidiamo decisioni importanti ad algoritmi: dalla gestione delle infrastrutture energetiche, ai mercati finanziari, fino ai veicoli a guida autonoma. Cosa accade se questi sistemi agiscono in modo imprevisto o inarrestabile? Una “IA fuori controllo” potrebbe prendere decisioni autonome contrarie agli interessi umani, senza possibilità di intervento umano tempestivo. Un esempio tangibile è quello delle armi letali autonome: droni o robot armati in grado di selezionare e colpire bersagli senza un essere umano che approvi il singolo attacco. Stuart Russell, un importante ricercatore nel campo dell’IA, ha messo in guardia su questi sistemi: essi possono replicare azioni letali su larga scala senza supervisione umana, con costi minimiscienzainrete.it. Non è un caso che Russell e altri scienziati abbiano lanciato campagne per bandire le armi autonome, similmente a quanto fatto in passato per le armi chimiche e biologichescienzainrete.it. L’idea di delegare alle macchine il potere di vita o di morte evidenzia perfettamente la paura della perdita di controllo: se un drone armato decidesse in autonomia chi colpire, come potremmo noi esseri umani riprenderne le redini? Un altro ambito critico è quello delle infrastrutture civili. Immaginiamo un’IA avanzata che gestisce la rete elettrica o i sistemi finanziari globali. Finché rimane sotto stretto controllo umano, i rischi sono contenuti. Ma se diventasse indipendente o incontrollabile, i pericoli aumenterebbero in modo esponenzialeimd.orgimd.org. Un rapporto recente ha introdotto la metafora dell’AI Safety Clock, un “orologio del giudizio” per l’IA, che segna il tempo rimanente prima di una possibile crisi fuori controlloimd.orgimd.org. Secondo questo indice, siamo a soli “29 minuti dalla mezzanotte”, indicando che stiamo rapidamente avvicinandoci a un punto critico nello sviluppo dell’IA in cui potremmo perdere la capacità di controllarla efficacemente. Tra i fattori considerati c’è proprio la capacità delle IA di operare nel mondo fisico: se un domani algoritmi avanzati controllassero la rete elettrica, i trasporti o sistemi d’arma nucleari, le conseguenze di un loro malfunzionamento o ribellione potrebbero essere catastroficheimd.org.
Per ora, i sistemi di IA sono ancora limitati e specializzati (la cosiddetta “narrow AI”, IA ristretta a compiti specifici). Gli incidenti di “perdita di controllo” finora hanno riguardato situazioni tutto sommato gestibili: ad esempio algoritmi di trading finanziario che hanno causato improvvisi crolli di Borsa, o software di pilota automatico che in casi isolati hanno reagito in modo inatteso. Tuttavia, questi episodi servono da monito. Nel 2010, per dire, un insieme di algoritmi di trading ad alta frequenza causò in pochi minuti il cosiddetto Flash Crash a Wall Street, mandando nel panico i mercati prima che gli scambi fossero sospesi manualmente. Ancora: nel 2018 Amazon dovette ritirare un sistema di recruiting automatizzato perché scartava sistematicamente i candidati donne (un problema su cui torneremo nella sezione 6). In quei casi gli umani hanno potuto spegnere o correggere il sistema, ma se in futuro l’IA gestirà sistemi più complessi e veloci, chi ci garantisce di poter intervenire in tempo? Vale la pena ricordare che figure autorevoli hanno espresso forte preoccupazione. Stephen Hawking, ad esempio, nel 2014 scrisse insieme a Stuart Russell e altri colleghi che “il successo nella creazione dell’IA sarebbe il più grande evento nella storia umana. Purtroppo, potrebbe anche essere l’ultimo, a meno che non impariamo a evitare i rischi”scienzainrete.it. Elon Musk ha paragonato l’IA a “evocare il demonio”, intendendo che si rischia di scatenare una forza incontrollabile. Tutte queste voci sottolineano un punto chiave: non dobbiamo dare per scontato che l’IA rimarrà docilmente al nostro servizio. aggiuge Alessandro Mongiello Come mitigare dunque la paura della perdita di controllo? Da un lato, investendo nella ricerca sulla sicurezza e l’allineamento dell’IA, per sviluppare tecniche che garantiscano la riconducibilità delle azioni delle macchine alla volontà umana. Ad esempio, studiando metodi per far sì che gli algoritmi comprendano davvero i nostri intenti e valori invece di perseguire obiettivi rigidi in modo potenzialmente distruttivo. Dall’altro lato, diversi esperti invocano regole internazionali. Abbiamo accennato al tentativo di bandire le armi autonome: già oltre 30 Paesi sostengono una moratoria globale su questi sistemi. Più in generale, nel novembre 2023 un consesso di scienziati di primo piano (riuniti a Bletchley Park, nel Regno Unito) ha raggiunto un consenso storico sull’urgenza di trattare la sicurezza dell’IA come un bene pubblico globale. In una dichiarazione congiunta, hanno avvertito che “purtroppo non abbiamo ancora sviluppato la scienza necessaria per controllare e salvaguardare l’uso di un’intelligenza così avanzata”, e che occorre cooperare a livello mondiale per prepararsi a scongiurare rischi catastroficinoemamag.com. Tra le raccomandazioni, questi esperti suggeriscono di creare un organismo internazionale preposto alla sicurezza dell’IA, che sviluppi “misure tecniche e istituzionali per prepararsi a sistemi d’IA avanzati” – ad esempio registrazione dei modelli più potenti, meccanismi di monitoraggio e “tripwire” (allarmi e interruttori d’emergenza)noemamag.com. In pratica, molte delle altre paure che tratteremo derivano, in ultima analisi, da questa origine: la possibilità che l’IA agisca in modi imprevedibili o incontrollati. Che si parli di manipolazione di massa, di errori algoritmici o di superintelligenze, il denominatore comune è il rapporto di potere tra l’uomo e la macchina. La sfida sarà riuscire a costruire un futuro in cui l’IA resti sotto il nostro controllo significativo, operando come strumento potenziante e non come entità fuori dalla nostra portata. Il sentiero non è semplice, ma riconoscere il problema – come stiamo facendo – è il primo passo per affrontarlo.
2. Manipolazione dell’opinione pubblica e disinformazioneLa seconda grande paura riguarda l’uso dell’IA per manipolare le masse e diffondere disinformazione. In un’era in cui l’informazione circola principalmente online, strumenti come i deepfake (video o audio falsificati con l’IA) e i chatbot avanzati possono essere armi formidabili di propaganda. Yuval Noah Harari, storico e filosofo, ha osservato che l’IA ha acquisito “capacità notevoli di manipolare e generare linguaggio – con parole, suoni e immagini – e ha così hackerato il sistema operativo della nostra civiltà”economist.comeconomist.com. In altre parole, dominando la comunicazione, l’IA può insinuarsi nel cuore del discorso pubblico e alterare la percezione della realtà. Già oggi vediamo esempi preoccupanti. Durante le elezioni, per esempio, video deepfake di politici hanno cominciato a circolare, creati ad arte per screditarli o influenzare gli elettori. Nelle elezioni presidenziali USA del 2024 sono comparsi falsi video di figure politiche con dichiarazioni inventate, diffusi sui social per orientare il votoagendadigitale.eu. In Indonesia, addirittura, un partito ha usato un deepfake dell’ex presidente Suharto in un video di endorsement ai propri candidati, scatenando polemiche sull’eticità di tali metodiagendadigitale.eu. Non si tratta più di ipotesi futuribili: l’IA sta già alimentando campagne di disinformazione. Un’analisi pubblicata nel 2024 su PNAS Nexus ha previsto che i bot potenziati da modelli generativi diffonderanno sistematicamente falsità durante le tornate elettorali in oltre 50 Paesi nel 2024scientificamerican.com. Mentre in passato i profili falsi erano spesso rozzi (messaggi sgrammaticati, inglese zoppicante), ora le reti di bot possono generare testi perfettamente coerenti e convincentiscientificamerican.com, eliminando quei segnali rivelatori che aiutavano gli utenti ad accorgersi dell’inganno. Immaginiamo migliaia di account automatizzati che pubblicano incessantemente post e commenti, partecipano a discussioni online, creano video e meme, tutti coordinati per spingere una certa narrativa. Con l’IA, questo scenario è diventato realtà. Nel 2016, le “fabbriche di troll” diffuse sui social network erano composte per lo più da esseri umani pagati per seminare zizzania. Oggi, software come GPT-4 possono sfornare testi su misura in qualunque lingua, e persino sostenere conversazioni realistiche nei forum o nelle chat, impersonando finti utenti. La frontiera si sposta continuamente: un recente articolo su Scientific American ha titolato che i bot d’IA potrebbero “sabotare le elezioni 2024 in tutto il mondo”scientificamerican.com, proprio perché capaci di automatizzare la propaganda su scala massiccia. Secondo tale analisi, ogni giorno in campagna elettorale genereranno odio, fake news e teorie del complotto dirette a specifici segmenti di elettoriscientificamerican.com. Un caso emblematico di deepfake risale al marzo 2022, nei primi giorni della guerra in Ucraina: apparve online un video che mostrava il presidente ucraino Zelensky dichiarare la resa e invitare le truppe a deporre le armi. Era un video falso, generato al computer, ma ben fatto; per qualche ora ha circolato seminando confusione prima di essere smentito. Questo episodio ha mostrato il potenziale dei deepfake come strumento di guerra psicologica. In futuro, un deepfake potrebbe mostrare (falsamente) un leader mondiale che annuncia un attacco nucleare o un disastro inesistente, scatenando il panico prima che si scopra la verità. La disinformazione alimentata dall’IA può colpire alla velocità della luce, su scala globale, e risulta sempre più credibile. Oltre ai video, c’è il problema degli audio contraffatti. Con l’IA è possibile clonare la voce di una persona partendo da pochi campioni registrati. Truffatori hanno già sfruttato questa tecnica: in un caso, i dipendenti di un’azienda britannica sono stati ingannati da un audio deepfake che imitava perfettamente la voce del loro CEO, convincendoli a trasferire 243.000 dollari ai criminaliagendadigitale.eu. Episodi simili di “vishing” (phishing vocale) si stanno moltiplicando. Si sono visti tentativi di frode in cui una finta chiamata del “direttore della banca” (in realtà una voce sintetica) chiedeva conferme di dati sensibili, o persino falsi messaggi vocali di familiari in pericolo per estorcere denaro. Di fronte a queste simulazioni così realistiche, il pubblico fatica a discernere il vero dal falso. Non meno inquietante è l’uso di chatbot persuasivi. I modelli linguistici come ChatGPT possono essere addestrati per sostenere argomentazioni e convincere le persone su determinati punti di vista. Un’IA potrebbe profilare gli utenti (grazie alla mole di dati personali disponibili online) e poi interagire con ciascuno in modo personalizzato, facendo leva sulle sue emozioni e sui suoi bias per influenzarne opinioni e comportamenti. Si parla ad esempio di micro-targeting persuasivo: contenuti generati ad hoc per un singolo individuo, sfruttando le sue vulnerabilità. In mani sbagliate, questo è l’incubo di un propagandista: avere un esercito di persuaditori artificiali, instancabili e scalabili, che lavorano 24 ore su 24. Le conseguenze sociali di una tale manipolazione algoritmica sono profonde. Potremmo assistere a un ulteriore degrado del dibattito pubblico: comunità polarizzate da notizie false confezionate apposta per loro, perdita di fiducia generalizzata nelle fonti di informazione (il classico “non si sa più a cosa credere”), e una specie di assuefazione alla menzogna. Alcuni studiosi parlano del “dividendo del bugiardo”: quando tutto può essere smentito come deepfake, anche le verità scomode possono essere liquidate come falsi. Ad esempio, un politico colto in fallo in un video reale potrebbe dichiarare che è un deepfake, e molti elettori potrebbero credergli, data la confusione correntereuters.com. Insomma, la stessa nozione di realtà condivisa rischia di sgretolarsi. Come reagire a questa minaccia? Fortunatamente, se ne discute attivamente. Sul piano tecnologico, numerosi gruppi stanno sviluppando strumenti per rilevare deepfake e contenuti sintetici. Algoritmi di deepfake-detection analizzano i video alla ricerca di artefatti (per esempio micromovimenti oculari innaturali, inconsistenze nei pixel del volto, ecc.), anche se è una corsa agli armamenti: all’aumentare della qualità dei deepfake, individuare i falsi diventa sempre più difficile – studi mostrano che gli esseri umani, da soli, non riescono quasi mai a riconoscerlipmc.ncbi.nlm.nih.gov. Un’altra strada tecnologica è quella di certificare l’origine dei contenuti: aziende come Adobe, Microsoft e altre hanno lanciato la Coalition for Content Provenance and Authenticity, che propone di inserire metadata di provenienza in foto e video, in modo da poter verificare se un media è originale o è stato alterato dall’IA. Parallelamente, sul piano normativo, si stanno muovendo i governi. L’Unione Europea, con il recente Digital Services Act, ha introdotto misure per garantire trasparenza dei contenuti sintetici, obbligando le grandi piattaforme online a segnalare chiaramente se un’immagine o un video è generato dall’IAagendadigitale.eu. Inoltre, la proposta di AI Act europeo include l’obbligo di etichettatura chiara per tutti i contenuti artificialiagendadigitale.eu. Negli Stati Uniti, si discute il NO FAKES Act, mirato a proteggere l’identità delle persone dall’uso non autorizzato in contenuti digitaliagendadigitale.eu (ad esempio vietando di usare la voce o l’immagine di qualcuno senza consenso nei deepfake). Anche l’Italia si sta muovendo: nel 2023 è stato istituito un gruppo di lavoro governativo sulla disinformazione online che ha posto l’attenzione sugli impieghi dell’IA. Un altro fronte è quello educativo e culturale. Diversi esperti sottolineano l’urgenza di una diffusa alfabetizzazione digitaleagendadigitale.eu. I cittadini vanno formati a riconoscere le trappole della disinformazione: verificare le fonti, controllare su più canali, non fidarsi ciecamente di messaggi allarmistici o troppo sensazionali. Alcuni hanno proposto campagne di sensibilizzazione sull’esistenza dei deepfake, in modo che il pubblico sappia che i propri occhi e orecchi possono essere ingannati. In parallelo, giornalisti e fact-checker stanno sviluppando nuove metodologie di verifica, e testate autorevoli integrano nei loro articoli bollini di autenticità (ad esempio alcune testate usano watermark digitali nelle foto autentiche per attestare che non sono modificate). Infine, c’è un aspetto filosofico: come preservare la fiducia nella società dell’informazione? La risposta potrebbe risiedere nella combinazione di soluzioni tecniche, regole intelligenti e resilienza sociale. Non potremo evitare che spuntino fake news e deepfake, ma potremo renderli meno efficaci. Se riusciamo a “vaccinare” il pubblico spiegando loro che queste tecniche esistono (così come si fece insegnando ai bambini che in TV la pubblicità vuole manipolarli), allora l’incantesimo perde parte del suo potere. Parallelamente, punire severamente chi usa deepfake per frode o diffamazione ha un effetto deterrente. Alcuni stati USA già applicano leggi contro i deepfake a scopo politico o pornografico (ad esempio criminalizzando il revenge porn sintetico). Negli Stati Uniti, con il DEEPFAKES Accountability Act proposto, si vuole rendere obbligatorio inserire un watermark digitale nei media generati dall’IA, così da poter perseguire chi lo rimuove. In conclusione, la paura che l’IA diventi un “Grande Fratello della propaganda” è tutt’altro che infondata. Tuttavia, riconoscendola per tempo, stiamo approntando contromisure. Il futuro dell’informazione sarà un braccio di ferro costante tra creatori di falsi sempre più sofisticati e strumenti di verifica sempre più avanzati. L’augurio è che, grazie all’educazione e alla cooperazione globale, riusciremo a proteggere la sfera pubblica da questa minaccia, mantenendo la possibilità di formare opinioni su basi informate e reali, e non su illusioni prodotte da una macchina. 3. Disoccupazione tecnologica e impatto sul lavoroUn altro timore diffuso è che l’intelligenza artificiale possa provocare disoccupazione di massa, rivoluzionando il mercato del lavoro più rapidamente di quanto la società riesca ad adattarsi. La storia ci insegna che ogni grande innovazione tecnologica ha avuto effetti dirompenti sull’occupazione: dalle macchine tessili nell’800 che mandarono sul lastrico gli artigiani (scatenando le proteste dei Luddisti), fino ai robot nelle fabbriche che hanno rimpiazzato molti operai alla fine del ‘900. L’economista John Maynard Keynes, già negli anni ‘30, parlava di “disoccupazione tecnologica” come di una nuova malattia dell’epoca moderna, pur definendola “una fase temporanea di squilibrio” destinata a risolversi con la creazione di nuovi mestierien.wikipedia.org. Il dibattito da allora vede ottimisti (convinti che, come in passato, i posti persi verranno rimpiazzati da altri magari oggi impensabili) contro pessimisti (che temono stavolta l’innovazione potrebbe davvero lasciare senza lavoro una parte consistente della popolazione)en.wikipedia.org. Che cosa c’è di diverso con l’IA rispetto al passato? Per la prima volta, una tecnologia promette di automatizzare non solo il lavoro manuale ripetitivo, ma anche compiti cognitivi e creativi, attività intellettuali svolte da lavoratori qualificati. Guidatori, cassieri, impiegati, analisti, traduttori, giornalisti, avvocati junior, medici radiologi… poche professioni si sentono al sicuro. Un recente sondaggio negli USA ha rilevato che circa metà della popolazione crede che l’uso crescente dell’IA porterà a maggiore disuguaglianza di reddito e a una società più polarizzata, in gran parte a causa dell’impatto occupazionalebrookings.edureddit.com. Vediamo alcuni dati concreti: secondo il World Economic Forum (WEF), entro il 2030 l’IA potrebbe eliminare 92 milioni di posti di lavoro nel mondo, creandone però 170 milioni di nuovi – con un saldo positivo di circa 78 milionifanpage.it. Sulla carta, sembra una buona notizia: più lavori creati di quanti persi. Ma c’è un grande “ma”: questi nuovi lavori richiederanno competenze spesso molto diverse e più avanzate, e il processo di trasformazione potrebbe essere estremamente rapidofanpage.it. Il rischio, evidenziato dallo stesso rapporto WEF, è di non dare abbastanza tempo ai lavoratori per aggiornarsi: un gap di competenze che potrebbe tradursi in ondate di disoccupazione prima che il mercato del lavoro trovi un nuovo equilibriofanpage.it. In effetti, il WEF stima che il 40% dei lavoratori dovrà riqualificarsi (acquisire nuove competenze) entro il 2030 per mantenere il proprio impiego nella transizione digitaleproversi.it. Non tutti però avranno accesso o modo di fare questi percorsi di aggiornamentoproversi.it. Pensiamo a categorie come gli autisti di camion: l’avvento dei veicoli autonomi rappresenta una minaccia diretta. Secondo un’analisi Goldman Sachs, l’automazione dei trasporti su strada potrebbe eliminare fino a 3 milioni di posti di lavoro tra camionisti e autisti di taxi negli Stati Uniti entro il 2035proversi.itproversi.it. E non si parla di fantascienza: aziende come Tesla, Waymo (Google) e Uber già sperimentano servizi di guida autonoma in alcune cittàproversi.it. La semplice consapevolezza che “un intero mestiere può diventare obsoleto da un giorno all’altro a causa di un algoritmo” genera comprensibilmente ansia e frustrazione. Uno studio dell’Università di Berkeley ha rilevato che i lavoratori che si percepiscono a rischio di disoccupazione tecnologica presentano un’incidenza di disturbi d’ansia e depressione del 50% più alta rispetto a chi opera in settori meno esposti all’automazione |
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